Testo integrale:
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI ROMA SEZIONE TREDICESIMA CIVILE
in persona della dott.ssa Wanda Verusio ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di primo grado iscritta al numero 64769/2014 del R.G.A.C. trattenuta in decisione all’udienza del 24 gennaio 2019 e vertente TRA B Mo, B B, B Go e B Lo, in proprio e in qualità di eredi di B Wa, come in atti rappresentati e difesi in giudizio dall’avv. E M Ci; ATTORI
CONTRO
Azienda P. U di Roma, come in atti rappresentata e difesa in giudizio dall’avv. G Dl Se; CONVENUTO
OGGETTO: risarcimento danni da responsabilità professionale.
CONCLUSIONI All’udienza di precisazione delle conclusioni del 24 gennaio 2019 i procuratori delle parti concludevano come da verbale in pari data.
RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Con atto di citazione ritualmente notificato i sigg.ri Bi in epigrafe indicati, anche in qualità di eredi di B B Wa convenivano in giudizio l’Azienda P. U di Roma chiedendone la condanna al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a seguito della infezione ospedaliera asseritamente contratta dallo stesso B Wa in occasione del ricovero del maggio 2010, nel corso del quale questi era stato sottoposto ad intervento neurochirurgico per la rimozione di una lesione tumorale in regione frontale destra; deducevano che in occasione del ricovero il loro congiunto aveva contratto una grave infezione da batterio Acinetobacter, cui si associava nei giorni immediatamente successivi infezione da ulteriori ceppi batterici (Klebsiella pneumonae, e Staffilococco Aureo) e che a seguito del conseguente shock settico decedeva in data 7 agosto 2010. Si costituiva il Policlinico contestando il fondamento della domanda e chiedendone il rigetto; in particolare allegava il difetto del nesso di causalità tra il decesso e l’infezione contratta, in considerazione dell’età avanzata del paziente, della neoplasia maligna da cui era affetto e dei due delicati interventi neurochirurgici ai quali era stato sottoposto. L’istruttoria si esauriva nell’acquisizione dei documenti prodotti e nell’espletamento di ctu medico legale sulla persona dell’attrice. Precisate le conclusioni la causa veniva trattenuta in decisione. All’esito della CTU espletata ed alla luce della documentazione prodotta può ritenersi accertato quanto segue. Il sig. B Wa, dell’età di 80 anni all’epoca dei fatti, in data 08.05.2010 si recava presso il Pronto Soccorso Ospedaliero, lamentando una cefalea persistente da circa una settimana, refrattaria agli antidolorifici, con recente comparsa di nausea e vomito. Un esame TC del cranio mostrava una lesione cerebrale; alla luce di tale riscontro, veniva formulata una diagnosi di “lesione in sede fronto-parietale dx con strie ematiche nel contesto, determinante effetto massa a livello del corno anteriore del ventricolo laterale dx, con deviazione della linea mediana controlateralmente” e posto il sospetto di ictus emorragico – emorragia. Si trasferiva quindi il paziente presso il Policlinico per una valutazione neurochirurgica. Veniva quindi eseguito un esame RMN con mezzo di contrasto che mostrava una voluminosa lesione espansiva che determinava fenomeni compressivi sul parenchima cerebrale sottostante e sul corno frontale del ventricolo laterale destro. Il paziente veniva quindi ricoverato presso il reparto di neurochirurgia ed in data 10 maggio 2010 veniva sottoposto a intervento chirurgico di asportazione della lesione cerebrale con esame istologico estemporaneo suggestivo per glioma di alto grado. Al termine dell’intervento, il paziente veniva trasportato presso i reparto di terapia intensiva neurochirurgica, ove giungeva vigile e collaborante, senza deficit sensitivo-motori. Per la stabilità del quadro neurologico veniva trasferito in data 12 maggio 2010 presso il reparto di neurochirurgia; un controllo TC mostrava gli esiti dell’asportazione chirurgica. In data 14 maggio il paziente veniva inserito in lista d’attesa per le eventuali sedute di radioterapia. In data 17.05.2010 le urinocolture, effettuate per il riscontro di macroematuria, risultavano positive per flora microbica mista: si iniziava quindi la terapia antibiotica con Ciproxin. Un esame TC di controllo del 18.05.2010 mostrava un miglioramento del quadro cerebrale, con status neurologico in progressivo miglioramento. Il 23.05.2010 si rilevava un quadro di leucocitosi neutrofila. Il 24.05.2010 un esame radiografico del torace documentava “accentuazione micronodulare della trama, più evidente in sede basale bilaterale; addensamento ilare e parailare destro; strie disventilatorie basali; seno costofrenico destro velato”. In data 25.05.2010 il quadro clinico risultava stabile, pertanto si trasferiva il paziente presso il reparto di Medicina Interna. All’ingresso si registrava iperpiressia e lo specialista infettivologo impostava una terapia antibiotica con Vancomicina, Tazocin e Diflucan. Il 27.05.2010 un esame colturale sull’aspirato tracheo-bronchiale del 25.05.2010 risultava positivo per Acinetobacter baumanii complex multiresistente. Alla luce di questo dato, si sospendeva la terapia con Vancomicina e Tazocin e si somministrava Colimicina in modalità endovena e aerosol. Veniva consigliato, se possibile, l’isolamento del paziente e di contattare il gruppo operativo del CIO. In data 01.06.2010 un esame radiografico del torace non mostrava apprezzabili alterazioni polmonari a focolaio in atto. Il 03.06.2010 veniva formulata la diagnosi istologica definitiva di glioblastoma (grado IV WHO). In seguito, si effettuava una consulenza neurochirurgica per una rinoliquorrea persistente e si otteneva l’evidenza strumentale di una fistola liquorale fronto-etmoidale. Lo specialista indicava il riposo assoluto e il mantenimento della posizione supina in attesa di un intervento di revisione del cavo chirurgico. Il 09.06.2010 il paziente si presentava apiretico; si sospendeva la terapia con Colimicina e non si riteneva necessario l’isolamento. In data 10.06.2010 i risultati degli esami microbiologici sull’espettorato del 07.06.2010 risultavano positivi per Acinetobacter baumanii complex con caratteristiche di resistenza pressoché sovrapponibili al precedente rilevamento. Si iniziava antibioticoterapia con Augmentin endovena e Colimicina somministrata via aerosol (quest’ultimo farmaco viene poi sospeso insieme al Diflucan). Il 23.06.2010 si trasferiva il paziente, soporoso e parzialmente collaborante, presso il reparto di Neurochirurgia. In data 28.06.2010, previa acquisizione del consenso informato, si effettuava un intervento di revisione della fistola liquorale, senza complicanze neurologiche: il paziente veniva nuovamente trasferito presso il reparto di Terapia Intensiva Neurochirurgica, dove rimaneva fino al 30.06.2010. In data 13.07.2010 il paziente veniva trasferito presso la struttura C. B. per effettuare la riabilitazione post-chirurgica, in buone condizioni cliniche generali, con una obiettività neurologica in miglioramento e con l’impossibilità di effettuare una deambulazione autonoma. Il giorno seguente tuttavia l’uomo veniva nuovamente trasportato presso il Pronto Soccorso del Policlinico per uno scadimento dello stato di coscienza con sopore, ipokaliemia e anemia; il paziente risultava apiretico, vigile, in condizioni scadute. Si effettuava un esame TC cerebrale in urgenza alla luce del quale non si ponevano indicazioni neurochirurgiche urgenti. Veniva tuttavia rilevato un aumento degli indici di flogosi e un esame Rx del torace mostrava l’accentuazione della trama polmonare; non si evidenziavano lesioni pleuro-parenchimali in atto e si iniziava la somministrazione di Tazocin ev. Il 19.07.2010 si trasferiva il paziente presso il reparto di Clinica Medica I, in condizioni cliniche stabili, dove si registrava iperpiressia e la positività delle emocolture del 16.07.2010 per batteri gram negativi. Le emocolture del 18.07.2010 risultavano inoltre positive per Staphylococcus aureus multiresistente. Il 20.07.2010, per il peggioramento delle condizioni cliniche, si richiedeva un esame radiografico del torace in urgenza, che mostrava un peggioramento del quadro polmonare. Si aggiungeva in terapia il farmaco Merrem ev; il giorno 21.07.2010 le emocolture su due campioni del 16.07.2010 risultavano positive per Klebsiella pneumoniae multisensibile. Si modificava ancora la terapia antibiotica: sospende Tazocin, continua Merrem ev e introduce Vancomicina ev. Il 22.07.2010 veniva estratto il CVC e veniva inviata la punta dello strumento per le indagini microbiologiche, che risultano positive per Acinetobacter baumanii MDR e Klebsiella pneumoniae. Le condizioni generali permangono gravi; un ulteriore controllo radiografico documentava l’accentuazione della trama polmonare, in assenza di alterazioni in fase attiva. Si sostituiva il farmaco Merrem con Colistina ev, Vancocina e Amikacina e si richiedeva una assistenza dedicata medico-infermieristica, mantenendo una distanza di almeno un metro dagli altri pazienti. In data 24.07.2010 le emocolture del 21.07.2010 risultavano positive per Enterococcus faecium multiresistente e Klebsiella pneumoniae. Una RM dell’encefalo non evidenziava recidive di malattia, mentre un esame radiografico del 31.07.2010 documentava un ulteriore peggioramento del quadro polmonare. Lo specialista infettivologo descrive un paziente apiretico, confuso, tosse con espettorato, anemia, leucocitosi; sospendeva i farmaci Vancomicina e Amikacina e prescriveva Zyvoxid per os e Merrem ev, riducendo il dosaggio della Colistina ev. Il 07.08.2010 il paziente appariva soporoso e tachidispnoico; si aspirava secreto tracheale siero-catarrale-ematico. Alle ore 6.30 si registrava un peggioramento della saturazione; alle ore 11.30, per un ulteriore peggioramento delle condizioni cliniche, si constatava il decesso. Rileva il ctu, alla luce dell’analisi dei dati a disposizione, che il coinvolgimento infettivo polmonare e sistemico, sostenuto da diversi germi (Acinetobacter baumanii MDR, MRSA, Enterococcus faecium MDR, Klebsiella pneumoniae), nonostante la pur corretta terapia antibiotica determinava un quadro di shock settico esitato nel decesso del paziente; la sequenza di eventi che ha condotto l’uomo al decesso (ricovero per il trattamento chirurgico del glioblastoma; insorgenza di una polmonite da Acinetobacter baumanii complex; interessamento infettivo sistemico polimicrobico; shock settico), oltre ad essere desumibile dai dati clinici (febbre, tachipnea, tachicardia, sopore), laboratoristici (aumento degli indici di flogosi), microbiologici (isolamento di numerosi germi su prelievi ematici e su escreato) e strumentali (segni radiologici di interessamento flogistico polmonare), è stata riconosciuta anche dai medici che hanno prestato assistenza al paziente, così come risulta dalla documentazione sanitaria agli atti. Tanto premesso in punto di fatto, si rammenta che la responsabilità medica – tanto con riferimento al medico quanto con riferimento alla struttura – ha natura contrattuale ed è disciplinata dagli artt. 1176 e 2236 c.c. che regolano la responsabilità nella esecuzione di un contratto d’opera professionale (art. 7, co. 1, l. 08/03/2017, n. 24, che ha fatto propria la soluzione già raggiunta dalla giurisprudenza di legittimità, per tutte Cass. SU n. 577/2008). Con particolare riferimento alla diligenza dovuta nell’adempimento della prestazione, per ormai consolidata giurisprudenza (cfr., per tutte, Cass. n. 23918/06) la stessa deve essere valutata, a norma dell’art. 1176, co. 2° c.c., con riguardo alla natura della specifica attività esercitata; tale diligenza è quella del debitore qualificato, che comporta il rispetto degli accorgimenti e delle regole tecniche obiettivamente connesse all’esercizio della professione e ricomprende, pertanto, anche la perizia. Quanto poi alla limitazione di responsabilità alle ipotesi di dolo e colpa grave, di cui all’art. 2236, co. II c.c., essa ricorre nelle sole ipotesi in cui la prestazione implica la soluzione di problemi di particolare difficoltà ed attiene, dunque, ai soli casi in cui è richiesta una particolare perizia che trascende la preparazione media, ovvero in cui la particolare complessità deriva dal fatto che il caso non è stato ancora studiato a sufficienza o non è stato ancora definitivamente dibattuto con riferimento ai metodi da adottare. Infine, l’obbligazione assunta dal professionista costituisce una obbligazione di mezzi e dunque il mancato raggiungimento del risultato non determina inadempimento; l’inadempimento, ovvero l’inesatto adempimento, consiste nell’aver tenuto un comportamento non conforme alla diligenza richiesta, mentre il mancato raggiungimento del risultato può costituire danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione ovvero alla colpevole omissione dell’attività sanitaria. Quanto poi alla ripartizione dell’onere della prova, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto –o il contatto sociale- e l’aggravamento di una patologia o l’insorgenza di una affezione, allegando l’inadempimento del debitore astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato; il medico o la struttura, quali debitori convenuti, sono invece gravati dell’onere di dimostrare il fatto estintivo, costituito dall’avvenuto esatto adempimento -secondo il criterio di diligenza specifica sopra precisato- ovvero che, pur sussistendo inadempimento, esso non sia stato eziologicamente rilevante in ordine al verificarsi del dedotto evento dannoso, ovvero che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile a lui non imputabile (Cass. S.U. n. 13533/01; n. 20806/09; S.U. n. 577/2008). Responsabilità della struttura ospedaliera Sgombrato il campo da tali questioni, e venendo al merito, si osserva che alla luce delle risultanze di causa quali sopra evidenziate in punto di fatto e tenuto conto che le conclusioni del CTU appaiono attendibili in quanto fondate su un approfondito esame della documentazione in atti e analiticamente motivate, deve ritenersi che la parte convenuta non abbia assolto all’onere probatorio, su di essa gravante, in ordine alla corretta esecuzione della dovuta prestazione di cura, segnatamente con riferimento alla corretta applicazione dei protocolli di prevenzione delle infezioni nosocomiali. Rispondendo ai quesiti relativi alla correttezza delle diagnosi poste e dei trattamenti effettuati, ha convincentemente concluso l’Ausiliario che la diagnosi della patologia che portò il sig. Wr Bi al ricovero presso il Policlinico, sulla scorta delle informazioni anamnestiche e dell’obiettività clinica riscontrata, venne correttamente effettuata. In particolare, vennero richiesti gli adeguati esami strumentali utili all’individuazione di una lesione occupante spazio in regione fronto-parietale destra, meritevole di trattamento chirurgico. Quanto poi al trattamento prescelto, ha chiarito il ctu che il glioblastoma è il tumore più comune e più maligno tra le neoplasie della glia. Il grado 4, glioblastoma multiforme, è il più aggressivo e il più comune di tutti i gliomi; la terapia migliore è la resezione chirurgica seguita da irradiazione esterna e chemioterapia che può migliorare la sopravvivenza in pazienti selezionati. Variabili prognostiche favorevoli comprendono l’età giovane, la resezione chirurgica completa, la terapia radiante e il buono stato di prestazioni. Il tempo mediano di sopravvivenza è di 2 anni per gli astrocitomi anaplastici e di 1 anno per il glioblastoma multiforme. Sulla base dei dati della riportata letteratura scientifica, la resezione chirurgica rappresentava nel caso concreto il giusto approccio terapeutico alla patologia neoplastica da proporre in prima battuta, seguito dalla radioterapia, trattamento per il quale il paziente era già stato messo in lista d’attesa. Il possibile impatto favorevole di una resezione chirurgica completa su una patologia aggressiva come il glioblastoma giustifica i rischi connessi a un approccio così invasivo. L’asportazione chirurgica ha poi permesso di formulare la corretta diagnosi istologica di glioblastoma (grado IV WHO). Quanto poi all’esecuzione dei trattamenti, ha ritenuto il ctu, sulla base della descrizione riportata in cartella clinica, che i due interventi neurochirurgici siano stati eseguiti in conformità alla buona prassi e alla scienza medica. Il verificarsi di una complicanza a seguito del primo intervento, nello specifico la formazione di una fistola liquorale, rappresenta un evento che, seppur noto in letteratura, non era prevedibile nel caso concreto e, comunque, nella fattispecie esso è stato prontamente riconosciuto grazie alla sua manifestazione clinica (comparsa di rinoliquorrea) e trattato chirurgicamente in modo adeguato. Peraltro, non si sono rilevate conseguente neurologiche ricollegabili ai trattamenti erogati: il quadro neurologico mostrava progressivo miglioramento e un esame RMN di controllo eseguito a distanza di oltre due mesi e mezzo dall’intervento di asportazione della lesione cerebrale non ha evidenziato recidiva di malattia. Quanto poi alle doglianze di parte attrice in ordine alle infezioni polmonari e sistemiche occorse nel corso del ricovero, esse sono state prontamente e correttamente riconosciute; anche in merito alla scelta della terapia antibiotica somministrata per fronteggiare le problematiche infettive insorte, gli specialisti infettivologi si sono attenuti alla migliore scienza ed esperienza medica del tempo, nonché alle informazioni fornite dagli antibiogrammi. Per quanto riguarda, invece, la corretta diligenza nell’adempimento di tutti gli accorgimenti utili a prevenire l’insorgenza delle infezioni correlate all’assistenza, ha rilevato il ctu che ben tre microorganismi su quattro (Acinetobacter baumanii complex, Staphylococcus aureus e Enterococcus faecium), isolati dalle emocolture del paziente B, presentano caratteristiche di multiresistenza tipiche di ambienti selettivi come quello ospedaliero. Questo significa che l’eziopatogenesi delle infezioni sofferte dal sig. B è sicuramente correlata all’assistenza. Ha chiarito l’Ausiliario con ampia ed esauriente esposizione che l’Acinetobacter è un genere di batteri coccobacilli gram negativi immobili. Sono batteri resistenti a numerosi antibiotici, presenti nell'acqua e nel suolo, e può essere riscontrato come colonizzante della cute dei pazienti e degli operatori, del tratto respiratorio e digestivo. Può sopravvivere nell’ambiente per lunghi periodi, anche fino a 30 giorni, nei lavandini, sulle spondine dei letti, sui tavolini, nei cuscini, nei materassi, sulle tende, sulle maniglie delle porte, sugli stetofonendoscopi, sulle tastiere, sui monitor dei computer, etc. Sopravvive su superfici di ceramica, di acciaio, di gomma, di PVC. Inoltre ha la capacità di sopravvivere sia sulle superfici asciutte che su quelle umide, con relazione direttamente proporzionale tra umidità relativa e sopravvivenza. Può essere la causa di infezioni urinarie o di infezioni respiratorie nei pazienti immunocompromessi. Le politiche della prevenzione si basano su quattro momenti fondamentali: 1 - Gestione del paziente: in prima istanza va valutata la possibilità di ricoverare il paziente in isolamento in stanza singola, secondariamente è possibile effettuare il cohorting con altri pazienti colonizzati o infetti con lo stesso microrganismo, in terza istanza bisogna considerare la possibilità di ricoverare il paziente con Acinetobacter baumannii con altri pazienti considerati a basso rischio di acquisire un’infezione/colonizzazione. Le precauzioni devono essere mantenute per tutta la durata del ricovero, almeno fino a negativizzazione dei campioni colturali. La principale modalità di trasmissione è rappresentata dalle mani del personale. Sulla porta della stanza di degenza del paziente deve essere apposto un cartello che informi/avvisi chiunque acceda di applicare le precauzioni da contatto. Particolare attenzione deve essere posta nel comunicare a consulenti esterni al reparto, personale del servizio di pulizia e visitatori la necessità di attenersi scrupolosamente alle precauzioni da contatto, con particolare enfasi per l’igiene delle mani. La documentazione clinica deve contenere l’annotazione medica e infermieristica di infezione/colonizzazione da Acinetobacter baumannii MDR. 2 - Comportamento degli operatori: l’igiene delle mani è la più importante misura di prevenzione e controllo della diffusione di Acinetobacter baumannii MDR e altri MDR. Per interrompere la trasmissione è necessario effettuare l’igiene delle mani con la soluzione a base alcolica, con acqua e sapone o con sapone antisettico e attenersi scrupolosamente alle indicazioni dei 5 momenti fondamentali. L’igiene delle mani è una misura necessaria anche dopo la rimozione dei guanti. Per favorire la compliance dell’igiene delle mani, occorre implementare la formazione e i programmi di monitoraggio della compliance, rendere facilmente disponibili le soluzioni idro-alcoliche per la frizione delle mani, promuovere l’igiene delle mani tra gli operatori sanitari e visitatori. Importante è pure l’uso di dispositivi di protezione: indossare i guanti quando si entra nella stanza e si prevede il contatto con il paziente e l’ambiente circostante al paziente, sostituire i guanti quando si passa da un sito contaminato del paziente a un sito pulito, rimuovere i guanti ed effettuare l’igiene delle mani prima di lasciare la stanza del paziente, dopo aver rimosso i guanti ed aver eseguito l’igiene della mani, assicurarsi di non toccare superfici od oggetti potenzialmente contaminati nella stanza del paziente, rimuovere i guanti ed effettuare l’igiene delle mani prima di passare ad un altro paziente, rimuovere i guanti prima di togliere il camice di protezione. Ancora, è necessario disporre l’uso del camice di protezione quando si entra nella stanza e si prevede il contatto con il paziente e l’ambiente circostante al paziente; il camice di protezione deve essere rimosso in modo da contenere la parte esterna che è entrata in contatto con il paziente o gli oggetti potenzialmente contaminati. E’ necessario proteggere bocca, naso, occhi: indossare maschera chirurgica, occhiali di protezione o schermo facciale, prima di eseguire procedure che possano comportare schizzi di sangue, liquidi biologici, secrezioni o droplet respiratori; rimuovere la maschera, gli occhiali di protezione o lo schermo facciale dopo aver rimosso i guanti; effettuare l’igiene delle mani dopo aver rimosso tutti i dispositivi di protezione. Infine, quanto alle attrezzature e dispositivi per l’assistenza, è necessario utilizzare dispositivi non critici monouso, se disponibili; riservare dispositivi non critici ed attrezzature per il singolo paziente; in caso di condivisione lavarli e disinfettarli adeguatamente prima del riutilizzo. 3 - Igiene ambientale. Essenziale è la pulizia della stanza: Acinetobacter baumannii MDR può contaminare tutto il materiale ivi presente; l’ambiente del paziente infetto deve essere pulito e disinfettato due volte al giorno (rispettando diluizioni e tempi di contatto dei prodotti detergenti/disinfettanti), facendo particolare attenzione alle superfici orizzontali e a tutti i punti dove si può accumulare polvere (letti, comodini, travi tecniche, etc.) e le superfici più frequentemente a contatto con il paziente. Deve inoltre essere effettuata correttamente la pulizia giornaliera delle superfici più frequentemente a contatto con le mani. Le apparecchiature elettromedicali che generano correnti elettrostatiche devono ricevere particolare attenzione per la pulizia della polvere che può accumularsi su di essi. Contenitori per la raccolta dei rifiuti pericolosi a rischio infettivo devono essere presenti all’interno della stanza per eliminare i dispositivi di protezione. La letteratura evidenzia che Acinetobacter baumannii MDR risulta suscettibile a disinfettanti/detergenti quali sodio ipoclorito, polifenoli, composti di ammonio quaternario. 4 - Sorveglianza e controllo. Ogni struttura deve implementare una procedura per la segnalazione tempestiva di MDR agli operatori dei reparti interessati e a coloro che gestiscono il programma di prevenzione e controllo delle infezioni (CIO). La coesistenza di almeno due pazienti positivi per infezione da Acinetobacter baumannii MDR nello stesso reparto deve far scattare l’indagine di outbreak per identificare i pazienti colonizzati e deve essere coordinata dal gruppo del rischio infettivo. Siti di prelievo sono: naso, faringe, perineo, ferite aperte, espettorato, cannula tracheotomica, retto e feci. Analoghe procedure di prevenzione sono previste per gli altri ceppi batterici riscontrati nel caso in esame e tali lo Stafilococco aureo, resistente alla meticillina, ma anche alla oxacillina, alla nafcillina, all’imipenem e alle cefalosporine, e l'Enterococcus faecium -responsabile di infezioni nosocomiali del tratto urinario, endocarditi e sepsi, questo perché è molto adattabile e resistente a molti tipi di antibiotici, fra i quali Ampicillina, Penicillina e Vancomicina- e il Klebsiella spp. Spesso gli appartenenti a tale ultimo genere si comportano da patogeni, provocando polmonite, setticemia ed altre infezioni ai tessuti molli, tra cui l'apparato intestinale, provocando forti gastroenteriti. Il germe della Klebsiella è facilmente individuabile attraverso una coprocoltura, e si debella attraverso la somministrazione di antibiotici specifici, tra cui la ciprofloxacina. L’analisi della documentazione sanitaria agli atti ha permesso di rilevare come sia stata somministrata l’opportuna profilassi antibiotica in occasione del primo intervento neurochirurgico e come gli specialisti infettivologi abbiano sempre prescritto l’adeguata terapia farmacologica nel tentativo di contrastare, con successo in occasione della prima infezione polmonare da Acinetobacter baumanii complex, le infezioni sviluppatesi nel corso della degenza. In una circostanza (27.05.2010) risulta essere stato consigliato, se possibile, di mantenere l’isolamento del paziente (ritenuto nei giorni seguenti non più necessario) e di contattare il gruppo operativo del CIO. In un’altra occasione (dopo il riscontro di una diffusione sistemica dell’infezione) è stata richiesta una assistenza dedicata medico-infermieristica, mantenendo una distanza di almeno un metro dagli altri pazienti. Difetta tuttavia la prova circa l’osservanza delle principali misure, sopra richiamate, per la prevenzione dell’insorgenza e della trasmissione delle infezioni correlate all’assistenza. In particolare, agli atti del fascicolo di parte convenuta non è presente alcuna documentazione che evidenzi in che modo la struttura Policlinico si avvalga di procedure preventive, incluse le attività di monitoraggio delle infezioni, la disinfezione degli ambienti ospedalieri, la formazione del personale e l’informazione dei visitatori, il sistema di segnalazione di nuovi casi; né, con specifico riferimento al caso concreto, è stato dimostrato che tali procedure siano state messe in atto dal personale sanitario così come richiesto dalla buona prassi clinica. L’assenza di prove del corretto adempimento della prestazione assistenziale quanto alle dovute azioni utili a prevenire e contrastare l’insorgenza di infezioni correlate alla degenza ospedaliera, consente di ritenere che il decesso di B Wa sia in rapporto causale con carenze organizzative della struttura Policlinico e/o inadempimenti del personale sanitario in essa operante che a vario titolo prestarono assistenza al paziente. In primo luogo, dal punto di vista cronologico occorre rilevare come il paziente, all’ingresso presso il Policlinico, non presentasse segni o sintomi indicativi di una infezione polmonare, né tantomeno sistemica. La comparsa di leucocitosi neutrofila, segni radiografici di interessamento polmonare e febbre e l’isolamento del germe Acinetobacter baumanii complex nelle colture sull’escreato polmonare, risalgono infatti al periodo di degenza postoperatoria, ben oltre le 48 ore dall’ingresso del paziente presso la struttura ospedaliera. Allo stesso modo, non si può attribuire ad altra struttura la ricomparsa delle problematiche infettive manifestatesi dopo il trasferimento dell’uomo presso il Policlinico dalla Clinica, sia per l’esigua durata della degenza presso quest’ultima struttura riabilitativa (circa un giorno), sia perché la ripresa di un coinvolgimento polmonare e la positività delle emocolture per lo stesso germe già individuato a livello locale (Acinetobacter baumanii complex, seppure con altri germi) suggeriscono una continuità fenomenologica con la polmonite contratta nella prima parte del ricovero presso il Policlinico. Inoltre, ben tre microorganismi su quattro isolati dalle emocolture (Acinetobacter baumanii complex, Staphylococcus aureus e Enterococcus faecium) presentano caratteristiche di multiresistenza tipiche di ambienti selettivi come quello ospedaliero. Si segnala infine la produzione, nel fascicolo di parte attrice, di numerosi articoli di giornale che descrivono un caso di decesso per infezione da Acinetobacter baumanii di una paziente degente nello stesso periodo presso il reparto di Terapia Intensiva Neurochirurgica del Policlinico. Tale reparto, secondo quanto riferito da parte attrice, sarebbe stato temporaneamente chiuso dal 15.10.2010, ovvero pochi giorni dopo il trasferimento di B Wa presso un altro reparto. Né è conferente l’allegazione di parte convenuta in ordine alla ritenuta insussistenza del nesso di causalità in ragione della circostanza che il sig. B Wa fosse un paziente a rischio di sviluppare un’infezione nosocomiale per le caratteristiche sopra descritte, tali l’età, la grave patologia sofferta ed il tipo di intervento chirurgico cui era stato sottoposto: nell’ottica di una pratica clinica diligente e responsabile, quale quella doverosamente attesa in un qualunque setting di cura ospedaliera, la presenza di fattori di rischio lungi dal costituire ragione giustificativa, rappresenta un motivo ulteriore per mettere in atto di tutte quelle precauzioni necessarie a prevenire una evenienza sfavorevole che arrechi un danno al paziente, in difetto di produzione di documentazione idonea a dimostrare la corretta osservanza delle misure di prevenzione e il diligente adempimento del personale sanitario. La struttura ospedaliera convenuta deve quindi essere chiamata a rispondere per il danno provocato agli attori in conseguenza della morte del loro congiunto. Liquidazione del danno da perdita parentale Quanto alla domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno “iure proprio” da perdita parentale, occorre premettere che trattandosi nel caso di specie di danno da fatto illecito costituente (anche solo astrattamente: Cass. S.U. 6651/1982) reato, il danno morale iure proprio è dovuto in base al disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., quale “danno non patrimoniale”. Nel caso in esame, peraltro, anche a prescindere dalla esistenza di un reato, il danno non patrimoniale sarebbe comunque dovuto in quanto la condotta illecita ha leso diritti della persona costituzionalmente qualificati, che nella specie sono i diritti della famiglia, fondati sugli artt. 2, 29, 30 Cost., in relazione ai quali è stato tradizionalmente configurato il danno da lesione del rapporto parentale. L’esistenza del danno deve ritenersi nel caso di specie provata in base alla natura del vincolo familiare degli attori con la vittima -figli- che giustifica la presunzione della sussistenza del danno in oggetto ex art. 2727 c.c.. Per la concreta liquidazione del danno non patrimoniale sofferto per la perdita di un congiunto, la giurisprudenza ha costantemente affermato, che il danno morale derivante da fatto illecito del terzo, per sua natura, sfugge ad una valutazione economica vera e propria, e può compiersi solo con il ricorso all’equità, tenendo conto di tutte le specificità del caso concreto al fine di adeguare l’equivalente pecuniario all’oggettiva entità del danno. Già da tempo la Suprema Corte ha affermato che occorre tenere conto nella liquidazione del danno non patrimoniale dei diversi profili, precisando tuttavia che è onere della parte che richiede il risarcimento fornire tutti gli elementi per rendere il risarcimento più aderente al caso concreto (Cass. n. 8827/2003). I noti criteri in uso presso questo Tribunale, in applicazione dei principi fin qui richiamati, fanno riferimento ad un sistema “a punti” che tiene conto dei seguenti fattori: 1) rapporto di parentela o di coniugio tra vittima e superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più stretto è tale rapporto; 2) età della vittima ed età del superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto minore è tale età, in quanto destinato a protrarsi per un tempo maggiore; 3) la convivenza tra la vittima ed il superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più stretta era la frequentazione tra vittima e superstite. Nel caso in esame il danno è lamentato dai figli della vittima, all’epoca dell’evento rispettivamente di anni 54 (Bi Mo), 52 (Bi Bo), 46 (Bi Gi) e 44 (Bi La), non conviventi. Al riguardo, deve precisarsi che la mera dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà prodotta sub. 1 da parte attrice non può ritenersi sufficiente a comprovare l’asserita convivenza del de cuius con il figlio B. –come affermato dalla parte- in difetto di ulteriore, specifica documentazione anagrafica e attesa, peraltro, la contraddittorietà del medesimo atto prodotto, da cui risulta che anche la figlia L: sarrebbe residente nello stesso indirizzo del fratello Bo. Alla luce delle considerazioni sopra svolte ed in applicazione dei criteri descritti, tenuto adeguatamente conto della specifica incidenza dell’evento luttuoso nel complesso della esistenzialità delle persone coinvolte, compete a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale l’importo di € 215.747,4 per ciascuno degli attori. Ritiene peraltro questo giudicante che l’importo indicato deve essere equitativamente ridotto nella misura del 30%, in considerazione della non convivenza e del limitato periodo di aspettativa del de cuius con riferimento alla grave patologia tumorale sofferta, pari a 12 mesi circa secondo le indicazioni del nominato ctu. Invero ha puntualmente precisato l’Ausiliario che B Wa era un soggetto ultraottantenne, dato che rappresenta un ulteriore fattore prognostico sfavorevole per i soggetti affetti da glioblastoma; tale patologia tumorale, sebbene asportata radicalmente ed in assenza –a distanza di poco più di due mesi- di segni clinici di compromissione neurologica e strumentali di recidiva di malattia, consente per le proprie caratteristiche di aggressività una sopravvivenza media che non supera un anno, prognosi ragionevolmente ipotizzabile in un soggetto con le caratteristiche fisiche, patologiche e anagrafiche del paziente all’epoca dei fatti per cui è causa. Si liquida pertanto in via meramente equitativa il minor importo di € 151.023,18 per ciascuno degli attori. Liquidazione del danno “iure hereditatis” Infine, gli attori hanno chiesto il risarcimento del danno biologico e morale acquisito iure hereditatis, in quanto la morte del congiunto si è verificata diversi giorni dopo la riscontrata infezione. La domanda è fondata. Ha specificamente precisato il ctu che l’insorgenza dell’infezione correlata all’assistenza, oltre ad aver causato la morte del paziente, allungò di circa 60 giorni il periodo di degenza comunemente necessario per l’asportazione chirurgica di una lesione cerebrale e della formazione di una fistola liquorale; inoltre, di tale periodo di maggior danno biologico temporaneo al 100%, corrisponde a 20 giorni il periodo in cui il paziente, cosciente, ha verosimilmente avuto la percezione di un inesorabile declino verso un esito infausto della propria vicenda clinica. Si rammenta che il danno catastrofale o terminale, secondo il più recente, condiviso insegnamento della Suprema Corte, è definito come il danno che la vittima subisce nel periodo interposto tra la lesione e la morte e consiste nella percezione dell’imminenza della morte, che si concretizza sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni (danno biologico), sia nel patimento psicologico (danno morale). Si reputa quindi dovuto il descritto danno non patrimoniale maturato in capo alla vittima ed entrato a far parte del patrimonio della stessa, trasmissibile agli eredi secondo le regole della successione mortis causa. Tale danno deve essere liquidato tenendo conto delle effettive sofferenze patite dall’offeso, e di tutti gli elementi della fattispecie concreta, in modo da rendere il risarcimento adeguato al caso concreto; nel caso di specie risulta dalla documentazione medica prodotta ed esaminata dal nominato ctu che il sig. B rimase ininterrottamente degente e che lo stesso venne sottoposto a molteplici terapie volte a contrastare il gravissimo stato settico oltre che la patologia tumorale. Durante tale periodo il paziente ebbe di certo a patire sofferenze sia fisiche sia morali e psicologiche, correlate al progressivo peggioramento delle condizioni generali di salute ed alla verosimile percezione dell’imminenza dell’exitus, in una agonia protrattasi per 20 giorni. Per il risarcimento di tale danno non patrimoniale sofferto dalla vittima ed acquisito dagli odierni attori iure haereditatis si ritiene di liquidare in via meramente equitativa –anche in applicazione dei criteri indicati nella tabella adottata dal Tribunale di Roma per l’anno 2019 e tenuto conto che nel danno terminale si è in presenza di un danno che si aggrava progressivamente- la somma di € 110.000,00 ai valori attuali, tenuto conto del tempo intercorso, della natura delle lesioni e delle patologie conseguenti e della ininterrotta ospedalizzazione del danneggiato dall’evento dannoso al decesso. Oltre alla rivalutazione del credito, già determinato nel suo complessivo ammontare ai valori attuali, vanno riconosciuti agli attori gli interessi per ritardato pagamento, liquidati in conformità al consolidato orientamento assunto sul punto sulla scorta della nota pronuncia della Corte di Cassazione S.U. con la sentenza n. 1712/95. Tale sentenza da un lato ha riconosciuto la risarcibilità del lucro cessante derivato al danneggiato per la perdita dei frutti che avrebbe potuto trarre dalla somma dovuta se questa fosse stata tempestivamente corrisposta, danno liquidabile anche con l'attribuzione di interessi la cui misura va tuttavia determinata secondo le circostanze obiettive e soggettive relative al danno nel caso di specie, ad un tasso non necessariamente coincidente con quello legale; dall'altro, ha escluso che si possa assumere a base del calcolo di tale danno la somma liquidata come capitale nella misura rivalutata definitivamente al momento della pronuncia. In applicazione di tali criteri, ed in via necessariamente equitativa ex art. 2056, co. 2° c.c., si ritiene di determinare l’ulteriore somma dovuta a titolo di lucro cessante facendo riferimento -in assenza di elementi che consentano di ritenere nel caso di specie un investimento maggiormente remunerativo della somma- al tasso medio di redditività degli investimenti mobiliari a basso rischio (titoli di Stato, BOT, CCT ecc. ) e al tasso di inflazione secondo i coefficienti ISTAT ed applicando così un ulteriore 2,5% annuo; in applicazione dei criteri sopra indicati tale tasso verrà calcolato non sulla somma capitale ai valori attuali bensì con riferimento alla valore medio tra il capitale al valore attuale e la somma dovuta alla data dell’illecito (agosto 2010), provvedendo ad adeguare il valore del capitale utilizzando i coefficienti ISTAT relativi al periodo in questione. Si rileva, infine, che con provvedimento in data 8 novembre 2017 il Giudice aveva disposto ex art. 5, co. II, d. lgsl. n. 28/2010, che le parti procedessero alla mediazione demandata. Il provvedimento veniva emesso sulla scorta dell’istruttoria svolta ed in particolare con riferimento alle risultanze dell’espletata ctu; segnatamente, il Giudice provvedeva ad indicare alle parti le ragioni della ritenuta fondatezza della domanda attorea con riferimento sia ai rilevati profili di responsabilità della struttura ospedaliera in ordine alla infezione ospedaliera contratta dal defunto sig. B sia del nesso di causalità tra il decesso del paziente e la patologia infettiva; provvedeva altresì alla puntuale indicazione dei criteri di liquidazione degli importi dovuti, con riferimento alla tabella di Roma per la liquidazione del danno non patrimoniale per la perdita parentale, nonché dei possibili indici di riduzione in ragione delle indicate specificità del caso concreto. Risulta poi dal verbale di mediazione depositato da parte attrice all’udienza del 4 giugno 2018 che l’Azienda P.U. di Roma (doc. in atti datato e siglato dal Giudice) non si presentava a nessuno degli incontri fissati dal mediatore, nonostante i plurimi rinvii dallo stesso disposti proprio su richiesta di parte convocata. A fronte di tali circostanze, deve ritenersi senz’altro applicabile il disposto dell’art. 8, co. 4 bis, del d. lgsl. cit., che prevede che “… Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per giudizio”. Invero, ai sensi e per l'effetto del secondo comma dell'art. 5 d. lgsl. n. 28/'10 come modificato dal D.L.69/'13, è richiesta alle parti l'effettiva partecipazione al procedimento di mediazione demandata e la mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione demandata dal giudice è in ogni caso comportamento valutabile nel merito della causa. L'assoluta insussistenza di un giustificato motivo per la non partecipazione al procedimento di mediazione, peraltro neppure allegato dall’odierna convenuta, e, d’altra parte, la sicura sussistenza di ampia piattaforma conciliativa in ragione dei plurimi elementi forniti dal Giudice nel richiamato provvedimento, impongono l’applicazione della norma richiamata, con condanna della parte al versamento in favore dell’Erario del contributo unificato dovuto per il giudizio, da riscuotersi a cura della Cancelleria. Peraltro, il comportamento processuale della parte convenuta deve essere riguardato anche con riferimento a quanto disposto dall'art. 96, co. III°, cpc, a norma del quale “ … in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata” Tale norma, a differenza di quella di cui ai primi due commi dello stesso art. 96 c.p.c., non individua una ipotesi di responsabilità, svolgendo invece una funzione propriamente sanzionatoria di comportamenti processuali abusivi del diritto di azione o di difesa, che viene dalla parte piegato a fini dilatori o pretestuosi, con la conseguenza di aggravare il volume (già di per sé notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, di ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti. Il carattere officioso della condanna è giustificato proprio dal carattere dell’offesa, che travalica l’interesse di controparte -pure innegabilmente lesa da una defatigante quanto inutile difesa in giudizio- per nuocere al buon funzionamento della giurisdizione stessa (Corte Cost., 23 giugno 2016, n. 152). La norma richiamata deve ritenersi senz’altro applicabile cumulativamente con il citato art. 8, co. 4 bis d. lgsl. n. 28/10: per un verso, infatti, va rilevato il carattere generale dell'art. 96 cpc, la cui applicazione non è condizionata all'esistenza di una espressa previsione per singoli casi, né la legge ne esclude espressamente l’applicabilità al caso di specie. Per altro verso, lo stesso d. lgsl. n. 28/10 all'art. 13, all'atto di prevedere una specifica disciplina delle spese di causa in materia di proposta del mediatore irragionevolmente non accettata, fa comunque salva l’applicabilità degli articoli 92 e 96 c.p.c., sicchè sarebbe illogico sostenere l’inapplicabilità della norma nell’ipotesi in cui la parte neppure ritiene di presentarsi al procedimento di mediazione e segnatamente della mediazione delegata ex art. 5, co. II° d. lgsl. n. 28/2010, laddove il giudice ha già effettuato una valutazione di mediabilità concreta e specifica e, quindi, il disvalore del rifiuto di partecipare all'incontro è, all'evidenza, ben più elevato rispetto al caso della mediazione obbligatoria. Invero, l’applicazione della misura sanzionatoria prevista dalla norma in parola non è una conseguenza automatica della mera mancata partecipazione -come per il predetto art. 8- ma di una valutazione specifica e complessiva della condotta del soggetto renitente con riferimento non solo all'assenza di giustificati motivi per non partecipare, ma anche al grado di probabilità del raggiungimento di un accordo in caso di partecipazione -in considerazione delle ben evidenziate ragioni di fondamento della pretesa attorea di cui all'ordinanza di invio- sicché tanto più grave e meritevole di sanzione si connota l'ingiustificato rifiuto sinanche a partecipare al procedimento di mediazione delegato dal giudice. La doverosità della partecipazione delle parti al procedimento di mediazione, se è predicata in modo diretto dalla legge per quanto riguarda la parte onerata dalla condizione di procedibilità, e solo indiretto, come si argomenta dal contenuto del precitato art. 8, co. 4 bis decr. lgsl. 28/10, per quanto riguarda il convenuto, acquista ben più pregnante spessore e cogenza, quanto a quest'ultimo, a seguito della mediazione demandata riformata, nella quale l'ordine (e non come nel testo previgente un mero invito), del giudice si rivolge direttamente a tutte le parti, nessuna esclusa, rendendo manifesta ed esplicita la doverosità della partecipazione al procedimento di mediazione. In entrambi i casi, la circostanza che siano state previste delle sanzioni per la mancata partecipazione -improcedibilità per la parte onerata; pagamento del contributo unificato per la parte convenuta- attesta formalmente che l'attivazione della procedura di mediazione e la partecipazione ad essa costituisce un obbligo per tutte le parti in conflitto. Ne consegue che con l'applicazione dell' art. 96 co. III° c.p.c. può essere sanzionata la condotta processuale del soggetto che, non partecipando al procedimento di mediazione demandata, oppone ingiustificato rifiuto all'ordine impartitogli dal giudice e si sottrae alla doverosa verifica delle ipotesi conciliative prospettate. E d’altra parte è evidente che il legislatore ha perseguito un obiettivo sostanziale, vale a dire che le parti in conflitto esperissero concretamente la mediazione, vale a dire si incontrassero personalmente e tentassero, discutendo con la presenza attiva e fattiva del mediatore, di accordarsi. Nel caso in esame, in presenza di chiare e comprovate circostanze (indicate dal giudice nell'ordinanza di invio in mediazione) che imponevano a tutta evidenza di dismettere una posizione processuale di pregiudiziale resistenza, di adempiere l’ordine del giudice e di verificare in concreto la perseguibilità di ipotesi conciliative, la condotta della Azienda convenuta integra certamente profili di negligenza e di abuso dell’attività processuale. Parte convenuta deve quindi essere condannata al pagamento in favore della controparte di una somma che si quantifica come da dispositivo nella misura ritenuta congrua pari alla metà delle spese legali, secondo orientamento consolidato in giurisprudenza che, in assenza di riferimenti normativi, prende tale parametro a riferimento per stabilire l’entità della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. (ex multis, Trib. Milano, decreto 11 marzo 2017; Trib. Trento, sentenza 07 marzo 2013; Trib. Reggio Emilia, sentenza 18 aprile 2012 e sentenza 25 settembre 2012; Corte dei conti Puglia Sez. giurisdiz., 24 marzo 2017, n. 122; cfr. anche il protocollo del Tribunale di Verona, forse attualmente il più noto a livello nazionale, che individua per la quantificazione della sanzione una forbice compresa tra il minimo di un quarto ed il massimo del doppio delle spese di lite). Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, in applicazione dei criteri di cui al D.M. n. 37/2018 e tenuto conto della pluralità di attori. Le spese di ctu sono poste definitivamente a carico di parte convenuta.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, così provvede: - accoglie la domanda proposta da parte attrice, e per l’effetto condanna l’Azienda P U di Roma al pagamento in favore di B Mao, Bi Bi, Bi G e Bi Lna, in proprio e in qualità di eredi di B Wa, dell’importo di € 151.023,18 per ciascuno; si liquida altresì agli attori “iure hereditatis” l’importo di € 110.000,00; su tutte le somme sopra indicate sono dovuti gli interessi per ritardato pagamento determinati come indicato in parte motiva, nonché gli interessi legali sulle somme complessivamente dovute dalla data della presente sentenza e sino al soddisfo; - condanna l’Azienda P U a rimborsare alle controparti le spese del presente giudizio, quantificate in € 1.686,00 di spese ed € 33.364,80 per compensi, oltre accessori di legge; - visto l’art. 8, co. 4 bis, del d. lgsl. N. 28/2010, condanna l’Azienda P U al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il presente giudizio; - condanna l’Azienda P U a corrispondere a parte attrice la somma di euro 16.682,4 a titolo di responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c.; - pone definitivamente a carico dell’Azienda P U le spese di ctu.
Roma, 20 luglio 2019. Il Giudice W. Verusio