Testo integrale:
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale - Presidente -
Dott. FALASCHI Milena - Consigliere -
Dott. TEDESCO Giuseppe - Consigliere -
Dott. SCARPA Antonio - rel. Consigliere -
Dott. OLIVA Stefano - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 33996-2018 proposto da:
CONDOMINIO DI (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POMPONIO LETO N. 2, presso lo studio dell'avvocato C***** S******, che lo rappresenta e difende;
- ricorrente -
contro
P.M., rappresentata e difesa dall'avvocato F******** B*****+;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 17024/2018 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 10/09/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/01/2020 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Il Condominio (OMISSIS), ha proposto ricorso articolato in unico motivo (denunciando l'"omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5") avverso la sentenza 10 settembre 2018, n. 17024, resa dal Tribunale di Roma.
Resiste con controricorso P.M..
Il Condominio (OMISSIS), aveva avanzato gravame contro la decisione pronunciata in primo grado il 24 gennaio 2017 dal Giudice di pace di Roma. Il Giudice di pace aveva dichiarato improcedibile la domanda dello stesso Condominio volta alla condanna della condomina P.M. al pagamento della somma di Euro 2.000,00, determinata dalla deliberazione assembleare di approvazione del consuntivo per il 2015, in quanto l'attore, pur invitato dal giudice, non aveva attivato la procedura di mediazione obbligatoria, a causa della mancata adozione da parte dell'assemblea condominiale, nonostante il rinvio dell'incontro di mediazione, della delibera di autorizzazione all'amministratore di parteciparvi. Ad avviso del Tribunale, meritava conferma la soluzione della questione raggiunta dal primo giudice, visto, appunto, che la procedura di mediazione obbligatoria era rimasta infruttuosa per il difetto dell'autorizzazione assembleare alla partecipazione dell'amministratore (essendo la relativa riunione andata deserta). La decisione del giudice di appello poggiò sul testo dell'art. 71 quater c.c., comma 3, disp. att., dovendosi nella specie dire mancata la procedura di mediazione, che si era chiusa senza neppure sentire le parti e tentare la conciliazione a seguito dell'inerzia dell'assemblea nel concedere la necessaria autorizzazione. Sempre secondo il Tribunale, occorre distinguere il profilo della autonoma legittimazione processuale dell'amministratore ad agire in giudizio per la riscossione dei contributi dalla legittimazione dello stesso a partecipare alla procedura di mediazione, spiegandosi nel secondo caso l'indispensabilità della delibera dell'assemblea in base all'esigenza di conferire a chi interviene in mediazione la "possibilità di disporre della lite, vale a dire di negoziare sulla res controversa, salva poi la ratifica da parte dell'assemblea della proposta di mediazione". La sentenza impugnata osservò, dunque, come il mancato concreto svolgimento della mediazione fosse da addebitare al Condominio attore, essendo rimasto insoddisfatto l'obbligo previsto dal D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5 e successive modificazioni di attivare la procedura di mediazione, obbligo che comporta non soltanto l'introduzione della stessa, ma anche di presenziarvi "munito dei necessari poteri, essendo questi necessari per il buon esito del procedimento".
L'unico motivo di ricorso del Condominio (OMISSIS), rubricato "omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio", evidenzia come la mediazione doveva dirsi, piuttosto, ritualmente introdotta e dunque svolta, seppur poi negativamente chiusa, senza così comportare alcun riflesso sulla procedibilità della domanda.
Su proposta del relatore, che riteneva che il ricorso potesse essere rigettato per manifesta infondatezza, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all'art. 380-bis c.p.c., in relazione all'art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l'adunanza della camera di consiglio.
Il ricorrente ha presentato memoria ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., comma 2.
Va dapprima considerato come, nel vigore del nuovo testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modifiche nella L. 7 agosto 2012, n. 134, non è proprio più configurabile in radice il vizio di contraddittoria o insufficiente motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti. Neppure può ritenersi che il ricorrente abbia inteso far riferimento ad una ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del medesimo art. 360 c.p.c., n. 4, 12, n. 134, ipotesi integrabile allorché venga denunciata una anomalia motivazionale che si sostanzia nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile" (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).
La sentenza impugnata, d'altro canto, contiene esaurientemente le argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione.
La controricorrente oppone altresì l'inammissibilità della censura riferita al parametro dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per la regola emergente dall'art. 348 ter c.p.c., comma 5, la quale, tuttavia, opera in senso proprio allorché la sentenza di appello risulti fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della sentenza di primo grado, mentre il Tribunale di Roma ha condiviso essenzialmente le ragioni di diritto su cui poggiava la pronuncia del Giudice di pace. E' poi da superare anche l'ulteriore di eccezione di inammissibilità del ricorso per "violazione del principio di autosufficienza", contenendo lo stesso, al contrario, le indispensabili minime specificazioni relative ai fatti di causa, nonché agli atti ed i documenti che fondano la censura.
Ove peraltro il contenuto della doglianza del ricorrente voglia essere ricondotto, più appropriatamente, alla denuncia di una violazione di norme di diritto, occorre evidenziare come il Tribunale di Roma abbia comunque fatto corretta applicazione del testo dell'art. 71 quater disp. att. c.c. (inserito dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220). Tale norma al comma 1 indica quali siano le "controversie in materia di condominio" che, ai sensi del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, art. 5, comma 1, sono soggette alla condizione di procedibilità dell'esperimento del procedimento di mediazione, tra le quali certamente rientra la domanda avanzata dall'amministratore di condominio per conseguire di condanna di una condomina al pagamento dei contributi (come nella specie). Il medesimo art. 71 quater disp. att. c.c., comma 3, aggiunge, quindi, che "al procedimento è legittimato a partecipare l'amministratore, previa delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all'art. 1136 c.c., comma 2". L'art. 71 quater, comma 4, contempla poi l'ammissibilità di una proroga del termine di comparizione davanti al mediatore per consentire di assumere la deliberazione autorizzativa dell'assemblea, alla quale, infine, il comma 5 di tale disposizione rimette l'approvazione della proposta di mediazione, da votare con la medesima maggioranza occorrente per garantire la partecipazione dell'amministratore alla procedura.
L'art. 71 quater disp. att. c.c., comma 3, lettera, porta, allora, a concludere, identicamente a quanto sostenuto dal Tribunale di Roma, che la condizione di procedibilità della "controversie in materia di condominio" non possa dirsi realizzata allorché, come avvenuto nel caso in esame, all'incontro davanti al mediatore l'amministratore partecipi sprovvisto della previa delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all'art. 1136 c.c. comma 2, non essendo in tal caso "possibile" iniziare la procedura di mediazione e procedere con lo svolgimento della stessa, come suppone il D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, art. 8, comma 1. Non rileva nel senso di escludere la necessità della delibera assembleare ex art. 71 quater disp. att. c.c., comma 3, il fatto che si tratti, nella specie, di controversia che altrimenti rientra nell'ambito delle attribuzioni dell'amministratore, in forza dell'art. 1130 c.c., e con riguardo alla quale perciò sussiste la legittimazione processuale di quest'ultimo ai sensi dell'art. 1131 c.c., senza necessità di autorizzazione o ratifica dell'assemblea. Pur in relazione alle cause inerenti all'ambito della rappresentanza istituzionale dell'amministratore, questi non può partecipare alle attività di mediazione privo della delibera dell'assemblea, in quanto l'amministratore, senza apposito mandato conferitogli con la maggioranza di cui all'art. 1136 c.c., comma 2, è altrimenti comunque sprovvisto del potere di disporre dei diritti sostanziali che sono rimessi alla mediazione, e, dunque, privo del potere occorrente per la soluzione della controversia (arg. da Cass. Sez. 3, 27/03/2019, n. 8473). Tale evenienza non corrisponde, dunque, all'ipotesi contemplata dal D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, art. 5, comma 2 bis, il quale dispone che "quando l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l'accordo", in quanto, ancor prima che mancato, qui l'accordo amichevole di definizione della controversia è privo di giuridica possibilità.
Spetta infatti all'assemblea (e non all'amministratore) il "potere" di approvare una transazione riguardante spese d'interesse comune, ovvero di delegare l'amministratore a transigere, fissando gli eventuali limiti dell'attività dispositiva negoziale affidatagli (cfr. Cass. Sez. 2, 16/01/2014, n. 821; Cass. Sez. 2, 25/03/1980, n. 1994). Parimenti, l'art. 1129 c.c., comma 9 (sempre introdotto dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220) obbliga l'amministratore ad "agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale sia compreso il credito esigibile, a meno che non sia stato espressamente dispensato dall'assemblea", non rientrando, quindi, tra le attribuzioni dell'amministratore il potere di pattuire con i condomini morosi dilazioni di pagamento o accordi transattivi senza apposita autorizzazione dell'assemblea.
Il ricorso va perciò rigettato e il ricorrente va condannato a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio di cassazione.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento - ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, - da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l'impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 1.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6 - 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 9 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2020